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La femminilità tra metafora, imposizione e scelta

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Questo intervento è stato preparato nel 2010 per il Festival dell’eccellenza al femminile di Genova. (Immagine: Roy Lichtenstein)

Parto da una confstatazione evidente: le donne sono state escluse per secoli dalla polis, ma lo stesso non si può dire della “femminilità”, della costruzione sociale e culturale del “genere” femminile, della rappresentazione che l’uomo, unico protagonista della storia, ha dato all’altro sesso, delle norme, dei ruoli, che nel corso della sua civiltà ha imposto per controllarne il destino e piegarlo a proprio vantaggio. Le donne si sono trovate così al centro di una contraddizione difficile da affrontare e modificare: la loro esaltazione immaginativa e la loro insignificanza storica.

È questa la lucida intuizione di Virginia Woolf, all’inizio del ‘900, e la consapevolezza su cui nasce il femminismo degli anni ’70. Se siamo qui, ancora oggi, a interrogarci sul rapporto tra il “femminile” e le donne reali è perché le donne hanno subito una doppia espropriazione: identificate col corpo – e quindi non riconosciute come “persone” -, un corpo a cui l’uomo ha dato forma e nomi secondo le sue paure e i suoi desideri.

Si può passare la vita senza percepire altro che questo tessuto di immagini ricevute, stratificate e intrecciate a percezioni dirette ma oscure” (Rossana Rossanda, in “Lapis”, n.8,giugno 1990)

Mi sembrava di non donare nulla se non il mio corpo a cui essi davano pensieri a cui essi prestavano immagini io l’avevo capito che essi volevano solo dialogare con se stessi o con un’altra inventata da loro stessi ché non inquietasse ché non proponesse una lettura diversa della vita e con cui dovessero confrontare io loro stesso ruolo” (Agnese Seranis, Smarrirsi in pensieri lunari, Graus editore, Napoli 2007)

Il femminile come metofora e simbolo

Nell’uso metaforico e simbolico che ne è stato fatto, il femminile oscilla tra poli opposti, identificato ora con la natura – la materia, l’animalità -, ora con il sogno di una dimensione di purezza transumana, come se nella donna l’uomo avesse visto la sua dannazione e insieme la sua salvezza. Mi limito ad alcuni esempi.

Il femminile è stato associato al sacro e alla guerra, vista come “lo stato naturale del maschi”: la guerra darebbe all’uomo l’altruismo e la bellezza morale della maternità, la libertà dai pesi sociali e il ritorno alle leggi semplici e brutali della natura; la voluttà del sangue richiama la voluttà dell’amore; come il parto essa sarebbe dolorosa e feconda, rigeneratrice. (Roger Caillois, La vertigine della guerra, Edizioni Lavoro, Roma 1990)

Su un altro versante, invece, è considerato la fonte dell’ispirazione poetica: “un rigo immaginario” – per usare una immagine di Antonio Prete – a partire dal quale sale e discende l’intonazione dei versi, bianco spazio che accerchia le parole e ne misura il tempo”.

Il femminile è anche simbolo della nazione, della patria, dell’appartenenza etnica, anche se la patria è in realtà una “matria”, un volto d’uomo su un corpo femminile, chiamato a dare l’unità organica e la sicurezza della riproduzione. Il genocidio di un popolo è spesso femminilizzato: nella donna viene colpita la sua continuità. Lo stesso si può dire per lo stupro etnico: le donne sono depositarie dell’onore e del disonore famigliare e nazionale.

Se le immagini del femminile sono molteplici, come si può vedere dai libri d’arte e dalla letteratura, tuttavia si può dire che gravitano essenzialmente su due stereotipi: quella che rimanda alla radice materiale dell’umano e alle pulsioni naturali, viste come colpa, peccato, o come forza rigeneratrice, e quella che dovrebbe sostenere l’uomo nel suo bisogno di spiritualizzarsi. La metafora del parto e dell’amore è presente sia quando si parla di pulsioni viscerali violente, come nel caso della guerra, sia quando si tratta della creatività del pensiero (la fecondità dell’anima, il filosofo come amante del pensiero).

In questa oscillazione immaginaria tra terra e cielo, ritorno agli istinti primordiali ed elevazione morale, che viene proiettata sulla donna, si può leggere il dilemma del dualismo che ha tenuto finora l’uomo diviso in se stesso – tra corpo e pensiero -, e che è frutto a sua volta della differenziazione violenta che ha lasciato la donna a rappresentare l’origine materiale dell’umano e l’uomo la storia.

Il femminile, come fantasma dei desideri e delle paure dell’uomo, divenuto costruzione storica e culturale dell’identità e del ruolo della donna, se ha potuto impedire alle donne una percezione più reale del loro essere, è perché non è stato solo un’imposizione dall’esterno, ma una rappresentazione del mondo che le donne hanno interiorizzato, incorporato – “aprioristicamente ammessa”, come dice Sibilla Aleramo -,  e che ha bisogno perciò di essere “portata alla coscienza”. Si è donne, ma è come se si dovesse sempre scoprirlo. Ciò significa che siamo di fronte a una costruzione storica di “genere” che si è naturalizzata. Il femminismo degli anni ’70 comincia, non a caso, con la messa in discussione della “femminilità”: presa di coscienza di che cosa è stato il corpo femminile nello sguardo dell’uomo, dell’espropriazione di esistenza propria chele donne hanno subìto nel momento in cui sono state confinate nel ruolo di mogli e di madri.

“L’uomo greco – ha scritto Genevève Fraisse – esclude le donne reali mentre si appropria del femminile” (La differenza tra i sessi, Bollati Boringhieri 1996).

Il femminile si costruisce dunque nello sguardo dell’uomo, in relazione e in funzione dell’uomo: in relazione, in quanto è l’uomo che pone se stesso come “misura”, “norma”, come umano in senso pieno (corpo e pensiero) e dice in che cosa l’altro sesso “differisce”, di che cosa “manca”; in funzione, perché il femminile prende senso ed esistenza solo nella dedizione all’altro, nel garantire il bene dell’altro. Come scrive Otto Weininger in Sesso e carattere, un testo del primo ‘900 che riprende posizioni sessiste e razziste presenti nella cultura occidentale, greca e cristiana, “la donna è un mezzo per uno scopo”. Il dualismo – corpo e pensiero, biologia e storia, sentimenti e ragione – è una lacerazione che l’uomo trova in se stesso e che è tentato di spostare sulla donna, ma che cercherà  di riportare nuovamente su di sé, optando per l’uno o l’altro aspetto del femminile (animalità o spiritualità) o per la ricomposizione dei poli opposti. L’uomo creatore di se stesso (Zarathustra) di Nietzsche è portatore di una “saggezza gravida”, e il sole che si è appena nutrito del respiro caldo del mare, la madre che va a ricongiungersi al figlio.

“Nel differenziarsi dal sesso-natura, o nel riportare a sé la potenza naturale del femminile  – commenta G. Fraisse -, la filosofia lascia poco spazio alle donne (…) La metafora del femminile viene a spostare la ‘virilità’ del Logos occidentale”.

La tendenza a femminilizzarsi (“divenire donna”) interessa oggi la maggior parte degli orientamenti filosofici, ma anche la politica (nel suo “personalizzarsi” e “privatizzarsi”), l’economia, le tecnologie della comunicazione, l’industria dello spettacolo, le leggi del mercato. È proprio il protagonismo che è andato assumendo il femminile, e tutto ciò che con esso è stato identificato, a rivelare sia la sua appartenenza all’immaginario dell’uomo, sia l’effetto di messa in ombra  che produce rispetto alle donne reali. Pur essendo oggi molto più presenti nella vita pubblica di quanto non fossero al tempo di Virginia Woolf, le donne restano ancora marginali, insignificanti dal punto di vista del governo della società, assenti dai luoghi decisionali.

Il venir meno dei confini tra privato e pubblico ha portato a una contaminazione, o a un amalgama tra due poli tradizionalmente opposti: natura e cultura, sentimenti e ragione, e quindi anche femminile e maschile. La “femminilità” – emozioni, affetti, seduzione, doti materne, capacità di ascolto e di mediazione, ecc. – diventa una “risorsa” per un sistema patriarcale e capitalistico in crisi. Il potere politico stesso, nel momento in cui si personalizza e porta allo scoperto vizi e virtù private, come nel caso del Presidente del Consiglio, diventa “femmineo”.

Femminile e donne reali: imposizione o scelta?

A questo punto si pongono spontanee alcune domande: che femminile è quello che vediamo oggi in scena?  I corpi femminili che invadono i media sono corpi liberati o corpi prostituiti? Ma, soprattutto, che rapporto c’è tra questa “femminilità” esaltata come risorsa, “valore aggiunto”, e le donne reali?

Da quello che emerge da un osservatorio sempre più attento alla rappresentazione mediatica del femminile – ricerche, pubblicazioni, articoli di giornale -, ma anche semplicemente da ciò che abbiamo sotto gli occhi quotidianamente, non c’è dubbio che c’è un ritorno in forza degli stereotipi di genere, in particolare della rappresentazione della donna come corpo erotico e corpo che genera, cioè la seduzione e la maternità. La madre e la prostituta sono i due volti di quella che la cultura occidentale, classica e cristiana, ha considerato la “natura” della donna, è cioè la sessualità.

È nell’essenza e nella psicologia della donna il desiderio – dice Weininger – di “accoppiarsi”, sia a fini procreativi che erotici. Nel momento in cui è la società stessa a fare propria la “cultura del coito”, l’esaltazione e la mercificazione della sessualità, prevale anche nella donna “la volontà di passare dalla maternità alla prostituzione”.

Dal documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, e dalla ampia, meticolosa descrittiva che fa Loredana Lipperini (nel suo libro Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli 2007) di quello che passa nei blog, nei videogiochi, nei forum, nei libri di testo, nelle riviste femminili, nella pubblicità, oltre che in televisione, emerge con chiarezza che il messaggio dominante è quello che spinge le femmine fin da bambine, preadolescenti, a volgere la loro attenzione all’aspetto fisico, alla bellezza, e cioè in ultima analisi al corpo. La cultura popolare è impregnata da un immaginario che riporta in auge i due stereotipi di “genere” più duraturi: la seduttrice e la madre.

“Stiamo allevando una generazione di baby-prostitute che vestono come lolite?”, si chiede Lipperini.

Le donne sono spinte a ottenere potere col potere del loro corpo, dal momento che finora non hanno posseduto altro. La carta vincente per il successo, per una carriera o per un matrimonio diventa la bellezza fisica, il corpo come scorciatoia per un riconoscimento sociale (quello che per l’emancipazionismo è stata invece la maternità sociale). Weininger parla della modernità come della “emancipazione delle prostitute”. Uno sguardo alla televisione e alla pubblicità indurrebbero a pensare che avesse ragione.

Ma se è il corpo erotico, esibito, mercificato, che ci colpisce e ci indigna di più, non possiamo dimenticare che non meno celebrato, sia pure in modi e contesti diversi, è oggi anche il corpo materno.

In un libro che ha fatto molto discutere in Francia, Le conflit. La femme e la mère (Flammarion 2009), Elisabeth Badinter affronta in modo critico il ritorno al mito della “madre perfetta”, dell’allattamento al seno, della donna schiacciata sul ruolo materno. La spinta reazionaria verrebbe da ecologisti, psicologi, pediatri, e dalle femministe del “pensiero della differenza”, che non solo riconfermano la centralità del materno nell’esperienza delle donne (biologica o storica che sia) ma pensano di poterla estendere anche alla loro presenza nella vita pubblica. Una lettura analoga si può fare della richiesta che viene oggi dalla nuova economia, di tipo comunicativo, cognitivo, di “doti femminili”, il ValoreD di cui parlano quasi ogni giorno i giornali della Confindustria, e cioè la valorizzazione a fini produttivi e consumistici delle doti femminili materne.

In definitiva, i ruoli femminili più rappresentati restano la cura e la seduzione. Le donne sono strette tra la volgarità pubblicitaria, che le riduce a pezzi anatomici, e il richiamo alla vocazione materna o al sentimentalismo. Sulla permanenza o sul ritorno di stereotipi che si pensavano decantati, un peso notevole ha sicuramente il trionfo della logiche di mercato, della cultura di massa e del consumismo, oltre che la spettacolarizzazione della società in tutti i suoi aspetti.  La società dello sguardo e dell’immagine non poteva ignorare l’ “oggetto” primo dei sogni e degli incubi degli uomini: il corpo della donna.

È interessante notare come queste ricerche sulla rappresentazione del femminile, fatte dalla generazione che ha visto affievolirsi e quasi sparire dai circuiti informativi la spinta propulsiva del movimento delle donne, arrivino a conclusioni analoghe a quelle da cui il femminismo è partito: l’espropriazione di esistenza che le donne hanno subìto per effetto di un immaginario maschile divenuto forzatamente anche il loro; la conseguente connivenza o complicità tra dominate e dominatori, la confusione tra amore e violenza.

Ma c’è un elemento nuovo, di cui non si può non tenere conto: oggi sono le donne stesse a calarsi nei panni che altri hanno loro cucito addosso, a impugnare a proprio vantaggio – soldi, carriere, successo, ecc.- quelle potenti attrattive, come la seduzione  e la maternità, che l’uomo ha loro attribuito. Se l’emancipazione tradizionalmente intesa è stata l’omologazione al maschile, la fuga da un femminile screditato, oggi è il femminile che si emancipa in quanto tale. La donna, il corpo, la sessualità si prendono la loro rivalsa sulla storia che li ha esclusi e cancellati, ma nel momento in cui compaiono nello spazio pubblico, si fanno più evidenti anche i segni che questa storia vi ha lasciato sopra. Ci si rende conto che le figure di “genere” sono molto più di un copione imposto. Sono l’unico modo  che le donne hanno avuto per essere riconosciute, amate o odiate.

Ma il passaggio da una condizione che si è subìta, perché imposta con la forza del potere, della legge, della sopravvivenza, alla possibilità di assumerla attivamente, non è senza significato. Per quanto discutibile e perversa, dobbiamo ammettere che si tratta di una forma di emancipazione. Parlare di “scelta” non significa tuttavia “essere libere di scegliere”.

Per questo, riflettendo sulle donne che offrono i loro corpi in cambio di carriere e denaro, che si fanno “oggetto” per lo sguardo maschile, che entrano come moneta di scambio nel rapporto tra uomini, che mettono al lavoro affetti, sentimenti, la loro vita intera, non parlerei più di “vittime”.

E neppure, all’opposto, di “eccellenza al femminile”, per cui anche le escort, le veline sarebbero ‘figure nuove’ capaci di mettere a nudo il re.

Se vogliamo tornare alle donne reali, dobbiamo avere il coraggio di analizzare i tanti modi in cui le donne hanno cercato di sopravvivere, di far fronte ai ruoli, ai modelli imposti, di garantirsi comunque qualche piacere e potere: adattamenti, resistenze, risarcimenti, poteri sostitutivi. Il primo e il più duraturo è sicuramente quello di rendersi indispensabili agli altri. È la contropartita alla mole di lavoro gratuito che le donne continuano a fare nelle case, lavoro di cura e lavoro domestico. Sono poteri sostitutivi che restano ancora in gran parte innominabili, così come l’amore, il sogno di appartenenza intima a un altro essere. Questo spiega anche la tentazione che hanno le donne di considerare la “cura” – una dedizione materna che si estende anche ad adulti perfettamente autosufficienti – un tratto identitario, la loro “differenza”, la loro missione nel mondo, anziché una responsabilità collettiva di uomini e donne.

Per indurre le donne a togliere centralità al corpo e all’amore, al potere materno e seduttivo – a non essere più, come scriveva Virginia Woolf, “schiave che tentano di rendere schiavi altri”-  non basta la presa di coscienza.  Occorre anche un cambiamento delle istituzioni della vita pubblica, dei poteri, saperi e linguaggi che si sono strutturati sulle differenze di genere tradizionali.

Occorre, soprattutto,  che gli uomini, anziché occuparsi delle donne, per usarle o proteggerle, comincino a deporre la maschera di neutralità e a interrogare se stessi, le loro paure i loro desideri, la cultura prodotta da secoli di dominio maschile, riconoscendo quanta poca libertà e scelta sia stata lasciata anche a loro, nel dover indossare la corazza virile.

È


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